…a questo punto del diario di viaggio è necessario sospendere il racconto per capire la profondità del nostro cammino con la testimonianza della “sorella” Devana che ha aperto, a livello energetico, altri cammini…tra questi il più conosciuto: “La Via Pagana a Compostela”…
(Foto di Devana)
Serie “In viaggio con Devana nei luoghi della Dea” 2 – ARMENIA
…qui è possibile leggere l’articolo completo corredato dalle foto di Devana…
Serie “In viaggio con Devana nei luoghi della Dea” 2 – ARMENIA
Incontro con la Dea nel cerchio di Pietre a Carahunj.
L’universo ha sempre avuto un modo strano di “inviarmi in missione” nei siti sacri di tutto il pianeta.
Le chiamate arrivano nei modi più impensati: tramite una frase casuale detta al telefono da una persona che
non sento da anni, o dalla voce di qualcuno che interviene a una mia conferenza o, ancora, sotto forma di
volantino che casualmente mi trovo tra le mani, magari abbandonato sulla panchina di una fermata del bus.
Ormai sono abituata perché da 15 anni i miei viaggi studio sono “guidati” in questo modo.
Così, quando, nel gennaio 2015, un piccolo tour operator armeno mi invitò, tramite un vecchio amico, in
Armenia per creare un “pacchetto viaggio spirituale”, mi arresi ancora una volta all’inevitabile progetto che
il Piano aveva per me. Partii qualche mese dopo senza avere minimamente idea di cosa mi aspettasse. Ma
la sorpresa che ebbi, riguardo a ciò che trovai in quella Terra, fu realmente una tra le più grandi della mia
vita.
L’Armenia ha tradizioni antiche. E’ fiera della sua lingua, del suo alfabeto e della sua religione uniche. Una
terra che è stata più e più volte saccheggiata e violentata e che si è trasformata da grande e potente impero
a piccola regione incassata tra i monti Ararat e la catena del Caucaso e contenuta tra due mari – il Mar Nero
e il Caspio.
Il popolo armeno è cordiale e ospitale. Sono rimasta molto colpita dall’attenzione materna che le donne
hanno nei confronti degli ospiti. Esse partono la mattina con ceste e gerle e si arrampicano sulle montagne
per raccogliere erbe spontanee che vengono poi servite in tavola, fresche e crude, insieme al formaggio e al
pane lavash, una specie di enorme piada cotta in forni di argilla cilindrici a riverbero – detti tonir – posti in
buche nel terreno.
Quando impastano, le donne fanno movimenti che ricordano il saluto al sole hindu. Il pane lavash lo fanno
in due: una stende l’impasto su una pietra piatta fino a ottenere delle grandi pizze e l’altra, aiutandosi con
una grossa pala di legno rivestita di tessuto, “sbatte” le pizze contro la parete del forno che sta sotto i suoi
piedi. Le pizze si incollano in verticale e si cuociono in un baleno. Il pane lavash viene offerto agli ospiti
ancora caldo, insieme alle erbe e al formaggio a cui vengono aggiunti pomodori e cetrioli. Si strappa una
striscia di pane, la si imbottisce a piacere e la si arrotola. Non viene dato né sale né olio. La mancanza di
sale delle verdure viene compensata dal formaggio molto salato. Piatto tradizionale, semplice e genuino e
che non sporca le mani.
Ricordo che un giorno nel piatto con le erbe crude c’era del prezzemolo appena colto dall’orto e io ne
scartai il gambo per mettere nell’imbottitura del mio pane lavash solo le foglie. Quando la padrona del
ristoro venne a portare altre verdure e vide i gambi del prezzemolo accantonati mi guardò dispiaciuta di
tanto spreco e mi fece notare che nel gambo ci sono le vitamine. Quella volta, nonostante io abitualmente
mi comporti in maniera rispettosa del cibo e della terra e abbia una mentalità totalmente ecologica, mi
vergognai del mio gesto. La gente che ha vissuto tante guerre e stragi e che è sopravvissuta mangiando
quello che trovava in natura, ha davvero rispetto del cibo.
La ricchezza turistica dell’Armenia, quella riconosciuta universalmente intendo, consiste nei meravigliosi
monasteri della peculiare tradizione cristiana armena (la Chiesa Armena fa parte delle Chiese d’Oriente
staccate da Roma). I viaggi cosiddetti “della fede” che si fanno in Armenia prevedono una sorta di
pellegrinaggio tra un monastero e l’altro, in alcuni punti a piedi e in altri con pullman. Inizialmente pensavo
che avrei dovuto creare un “pacchetto spirituale” relativo ai monasteri, cercando quelli con fonti e sorgenti
o punti nella montagna dove poter sedere in meditazione e collegarsi all’energia del sito in un modo più
profondo della semplice osservazione architettonica e storica.
Ma fin da subito ebbi la prima sorpresa. Fui condotta, un po’ controvoglia in verità perché mi sembrava
troppo turistico per i miei standard “sciamanici”, a vedere il Museo Storico Nazionale della capitale
Yerevan. Complice la pioggia a catinelle che non consentiva di fare altro.
E… meraviglia!!!
Nel museo vidi tali e tanti reperti archeologici risalenti a quella che viene identificata come cultura
matrifocale, mia attuale area di studio, da lasciarmi davvero a bocca aperta. Compresi come mai otto mesi
prima avevo sentito l’impulso di comprare tutti i libri disponibili di Marija Gimbutas, straordinaria
archeologa lituana che ha scoperto e classificato le culture matrifocali dell’Antica Europa neolitica, ossia
l’enorme area contenuta tra l’Anatolia, i Paesi Baltici e l’intera Europa fino all’oceano Atlantico, comprese
le Isole Atlantiche, quelle del Mare del Nord e quelle Mediterranee. Mi resi conto che l’impulso a tale
studio era arrivato per preparami al viaggio in Armenia, poiché diversamente non avrei saputo riconoscere
il valore di ciò che si presentò ai miei occhi quasi per caso. In quella che Gimbutas chiama Antica Europa, tra
l’8.000 e il 3.000 a.C. la vita era incentrata sul culto alla Dea Madre (da cui il termine matrifocale). Le
comunità erano guidate dalle donne anziane, l’economia era basata sulla condivisione, sui culti domestici,
sulla circolarità e sulla fede nella rigenerazione dopo la morte fisica. Non c’era violenza, né proprietà
privata né mura difensive. Non c’erano gerarchie.
Simboli e oggetti di culto – presenti in gran quantità nel museo – erano grosse anfore rappresentanti il
ventre gravido della Dea, di fattura raffinata, decorate con simboli che rappresentano la vulva, l’utero e il
ciclo della nascita e rinascita: triangoli, clessidre, chevron, spirali, serpenti, rane, avvoltoi e musi di ariete e
di toro.
Inoltre, nei suoi scavi in tutta l’Europa, Marija Gimbutas rinvenne, quasi in ogni locale abitativo di ciò che
resta degli antichi insediamenti, una enorme quantità di statuette rappresentanti corpi femminili stilizzati.
Da ciò dedusse che si doveva trattare di culture che adoravano la Dea Madre, poiché le statuette maschili
erano, a confronto, molto poche. Tuttavia, in tutti i libri dell’archeologa che ho studiato tra l’autunno 2014
e la primavera 2015, si considerava la Turchia come l’origine di tale cultura neolitica. Gimbutas infatti parla
di Antica Europa e non di Asia.
E l’Armenia è inesorabilmente in Asia. Si trova infatti tra Turchia, Iran, Azerbaijan e Georgia, lungo la Via
della Seta. Ma…. l’area a sud-ovest dell’Ararat, la mitica montagna biblica dove si appoggiò l’Arca di Noè,
ora Anatolia turca, un tempo era Armenia. Pare che i sovietici abbiano “donato” l’Ararat ai turchi
togliendolo all’Armenia quando quest’ultima era una delle repubbliche socialiste sovietiche. Quindi poteva
essere!!! Quella che Gimbutas chiama Turchia poteva un tempo essere Armenia. L’Ararat storicamente è
stato armeno.
Mi beai della vista di quei sensazionali reperti, di quelle anfore e vasi così ben conservati e così numerosi e
di quelle statuette che a me facevano battere il cuore. Mi preparai in cuor mio alle sorprese poiché di sicuro
non avevo aspettativa di incontrare reperti matrifocali in un paese dove la religione ufficiale è totalmente
nelle mani degli uomini. Pare che il vescovo Cirillo di Alessandria, padre della “teoria monofisita” che ha
ispirato il culto cristiano armeno, sia stato il mandante della lapidazione della filosofa e astronoma
alessandrina Ipazia. Ironia della sorte: trovavo forti tracce del culto alla Dea in una terra dove la religione è
fortemente maschile e le donne oggi non hanno quasi accesso alla vita monastica.
Inoltre, durante il viaggio, giunse anche un’altra intuizione: l’Armenia poteva essere il vero inizio del
Cammino di Compostela? Avevo da poco pubblicato il mio quindicesimo libro LA VIA PAGANA A
COMPOSTELA (Anguana ed.) scritto a quattro mani con lo storico spagnolo Rafael Lema Mouzo, studioso ed
esperto delle origini antiche del Cammino a Occidente. E nel libro si dimostra come da 10.000 anni i
pellegrini partano da est, dall’area tra il Mare Nero e il Mar Caspio, per giungere all’estremo ovest europeo
a vedere l’ultimo occaso, per incontrare “la morte” in un lungo cammino iniziatico e comprendere il potere
della rigenerazione. Vedere ciò che c’è oltre lo specchio. Trovare l’Eden, l’Isola dei Beati, Avalon.
Avevo trovato l’inizio del cammino?
Poteva essere?
Al mio ritorno Rafael mi confermò che l’intuizione era giusta perché i primi pellegrini a dirigersi verso
Occidente erano i discendenti di coloro che scesero dall’Ararat dopo il diluvio.
(Foto di Devana)
Mi scrisse Rafael:
< Nella nostra preistoria esistevano tre grandi vie di pellegrinaggio. Una attraversava il sud dell’Inghilterra
dall’est all’ovest attraverso il ley o cammino sacro di Stonehenge. Le altre due terminavano ai finisterre di
Bretagna e Galizia. Quest’ultima era la più lunga e importante. La base del cammino jacobeo. Abbiamo un
cammino da est a ovest di alcuni popoli che cercavano le loro origini o la base dei loro miti all’estremo
ovest dell’Europa, dove tramontava il sole e dove la via Lattea si univa al mare. I popoli dell’est sapevano
che la Galizia era la terra della grande Dea Madre. Il sole che muore nel mare e resuscita in una stella e
termina nel paradiso occidentale dei Celti, che guardando il mare dai promontori sacri di Galizia credevano
di vedere le isole fantastiche dell’”aldilà”, l’altro mondo.
Il cammino medievale di Santiago arrivava a questa città. Ma da lì poi si divideva in tre strade che
sboccavano al mare, formando il tripode ario, il tridente di Nettuno che muove le onde. Il dio che cavalcava
le onde su cavalli bianchi e che faceva zampillare fonti e sorgenti. Questi tre cammini di Compostela al
mare formano la zampa dell’oca sotto il simbolo del 3, il numero sacro ario, fino a Muxia, Fisterra e
Padron. La leggenda jacobea unì l’apostolo con questi tre punti e in essi creò e fomentò santuari di
pellegrinaggio dedicando il culto a Maria sopra luoghi di culti precristiani.
La travagliata storia del popolo armeno, che difese la sua fede in Cristo contro i Romani i Persi e gli Arabi,
vanta episodi molto simili alla Spagna. Tra gli Armeni è singolare il culto a Santiago-Giacomo, al quale
dedicano la loro cattedrale in Gerusalemme e secondo la loro tradizione custodiscono le sue reliquie. Essi
costituiscono un evidente precursore del culto jacobeo, di gran lunga anteriore a quello spagnolo. Se
vogliamo studiare il culto jacobeo o giacobita, la fonte prima e più pura ci porta agli Armeni di
Gerusalemme.
Gli Armeni furono i primi diffusori dell’adorazione jacobea, come documentano le prime reliquie di
Giacomo-Santiago, sia il maggiore che il minore, trovate nella zona dove vissero e morirono. E estesero i
loro patriarcati in centri di diffusione tanto importanti quanto Gerusalemme, Costantinopoli, Siria, Libano o
egizia, che derivano le influenze dottrinali armene, come anche la devozione a Santiago del siglo de oro
spagnolo. Sia la nostra chiesa (di Santiago) come quella armena provengono da Alessandria, la città
simbolo, e da Iacob.
Il quartiere armeno della città vecchia di Gerusalemme accoglie la cattedrale di san Jaime (Santiago) e la
sede del patriarcato di Gerusalemme ereditato dallo stesso bastone di Giacomo il minore (fratello di Gesù e
primo vescovo della cristianità delle origini). Il patriarcato armeno di Gerusalemme è chiamato
PATRIARCATO ARMENO DI GIACOMO APOSTOLO o di Santiago di Gerusalemme. Fu fondato nel 638
d.C. per accudire gli Armeni in terra santa. Il patriarca, o Catholicos, risiede nel monastero di SantiagoGiacomo
(Surp Hagop).
Una chiesa, quella armena, segnata da una grande componente nazionalista, etnica, che vuole rimanere
distinta da Roma, creare i suoi propri santuari e martiri, come quella di Santiago, di cui la chiesa armena
cercherà l’apostolato (non di Pietro e Paolo). Gli Armeni sanno molto bene che Pietro andò a Roma e
Giacomo il minore restò a Gerusalemme come primo vescovo. Però col tempo si confondono le due
biografie di Giacomo il maggiore e Giacomo il minore, i due culti e anche le reliquie. Secondo le fonti
ecclesiastiche Compostela conserva il corpo del maggiore e la testa del minore e gli Armeni in
Gerusalemme le ossa del minore e la testa del maggiore. Siamo quindi certi e abbiamo le prove che gli
Armeni hanno sempre avuto un affetto speciale per la persona di Giacomo-Santiago>.
Così il Piano mi stava chiedendo di ricreare l’antico collegamento est-ovest, dopo aver riaperto nel 2012 il
Cammino Pagano a Compostela, insieme a Teresita Ramos?
Nei giorni seguenti le sorprese si susseguirono senza sosta. Ogni giorno, viaggiando verso sud, verso la
regione di Sisian, trovavo tracce delle comunità neolitiche matrifocali tanto che alla fine, “unendo i punti”, il
pacchetto spirituale lo creai ma non tra i monasteri cristiani, come mi era stato chiesto inizialmente, bensì
tra i siti archeologici neolitici dove, non essendoci controllo né recinzione, è possibile stare in connessione
con l’antica cultura e celebrare cerimonie sciamaniche alla Dea proprio nei luoghi dove era venerata.
Viaggiando verso sud, dicevo, il giorno dopo incontrammo Agarak. Si tratta di una vasta area cerimoniale
dove i grandi monoliti di tufo scavati dal tempo e dalle erosioni formano colonne e altari naturali. Si tratta
delle tipiche formazioni geologiche che i nostri antenati veneravano come luoghi sacri. Nelle grandi pietre
piatte trovai inequivocabili tracce dell’antico utilizzo dell’area come luogo rituale: coppelle circolari e
vasche quadrangolari di diverse dimensioni, collegate le une alle altre da canaletti che garantivano il
passaggio dell’acqua. Agarak era un tempio d’acqua, un tempio per sacre abluzioni ora asciutto ma non per
questo meno affascinante. Celebrai una cerimonia di riconoscimento e riattivazione dell’energia, offrendo
tabacco, chicchi di grano, pizzichi di sale e grani di incenso alla terra. Cantai a lungo alle rocce e al vento, in
quel luogo ancora carico e potente ai piedi del sacro Ararat. E infine rimasi ad ascoltare l’eco del mio canto
che dall’Ararat innevato mi giungeva quasi come una benedizione.
Il giorno dopo il viaggio riprese verso sud, verso il confine con l’Iran. Mi avevano parlato di un cerchio di
pietre dalla forma di uccello a Sisian. Un tempio megalitico risalente circa all’8° millennio a.C. e dedicato ai
riti di rigenerazione. La gente del posto lo chiama Carahunj “voce delle pietre
”.
Arrivarci non fu facile poiché non c’erano indicazioni e la pista in mezzo al fango (continuava a piovere)
sembrava più una palude. Le ruote del fuoristrada si incrostarono e cominciarono a slittare a vuoto.
Percorsi gli ultimi chilometri a piedi coi calzoni arrotolati e il fango fino alle caviglie. Quando giunsi in vista
dello stones circle il cuore perse dei colpi: era immenso, magnifico, quasi intatto. Un tumulo di cui si vedeva
il dolmen d’ingresso, circondato da una doppia spirale di menhir che si prolungavano da un lato all’altro
della montagna. Mi sentii benedetta. Ero di fronte ai millenni, nel silenzio totale. Il cielo nero si aprì, smise
di piovere e dall’alto scese un raggio di sole che illuminò il verde intorno. Mi sembrava di essere in un
documentario sulla genesi o in una foto di Salgado. Spazio e tempo si annullarono dentro di me. Mi percepii
infinita e immensa, senza confini, senza geografia, senza biologia.
Dalla mia borsa sciamanica estrassi un campanellino che mi era stato regalato fuori da un monastero. E
cominciai a suonarlo mentre mi avvicinavo al tumulo, nel centro delle due spirali di menhir incredibilmente
forati, toccando e salutando ogni pietra, cantando con tutto il fiato che avevo in gola, per svegliare le
memorie del sito, per lasciarle entrare nel mio sangue a svegliare le mie.
L’uccello, l’avvoltoio, era nel neolitico uno dei simboli della Dea: quello dell’aspetto rigenerativo. Nell’antico
Egitto l’avvoltoio era il geroglifo che significava Mut, la Madre. Nelle antiche società matrifocali i corpi dei
defunti venivano lasciati agli avvoltoi che se ne cibavano. Le ossa spolpate venivano poi sepolte nella terra
come semi per le nuove nascite. La vita si rigenerava nel ventre della terra grazie all’opera dell’avvoltoio,
che divenne quindi il simbolo della terza fase della Vita, quella che le nostre religioni hanno cancellato
trasformandoci in esseri insicuri e terrorizzati da una morte che ci hanno insegnato a considerare la fine. Le
culture matrifocali, invece, onoravano la terza fase: dopo la nascita e la morte c’era la rigenerazione, ossia il
ritorno dell’anima in un nuovo corpo. La morte era considerata solo un passaggio temporaneo nell’altra
dimensione affinché l’anima potesse rigenerarsi mentre una donna del clan le preparava un nuovo corpo.
Le Donne erano considerate Sacre in quanto Datrici di Vita.
E io mi trovavo in un tempio di rigenerazione. Il più grande e meglio conservato in cui mi fosse capitato di
entrare. L’emozione fu davvero tanta. Salii in piedi sulla cima del tumulo e cominciai a cantare e a pregare
sempre più forte dopo aver offerto tabacco all’ingresso del mound. Le lacrime scendevano sulla mia faccia
mentre invocavo la Madre sotto il cielo nero squarciato da raggi di luce al tramonto.
<Dea, qua è la tua figlia che ti chiama. Possano l’est e l’ovest ricongiungersi, Possano i due poli unirsi, possa
l’umanità vivere in pace>. Pregai finché ebbi voce e poi mi sdraiai sulle larghe pietre piatte che costituivano
il tetto del passage. Mi lasciai rigenerare, confortare, abbracciare dalle pietre. Infine, dopo un tempo che
non avrei saputo calcolare poiché ero fuori dalla percezione ordinaria, scesi dal tumulo e tornai verso
l’auto, che era ancora incagliata nel fango, chiedendo alla Dea aiuto per raggiungere l’alloggio. Aiuto che
evidentemente arrivò.
L’incontro con Carahunj ha segnato una tappa fondamentale della mia esistenza e del mio studio. Davvero
non saprei dire, in tanti anni di viaggi e ricerche, in quanti cerchi e allineamenti di pietre ho pregato. Oltre ai
più noti e turistici, Avebury, Stonehenge, Carnac, Callanish e tutti i templi megalitici andini in Perù, ho
trovato tantissimi cerchi di pietre meno conosciuti ma ugualmente potenti in Irlanda, Cornovaglia, Scozia,
Bretagna, Portogallo, Orcadi. Ma Carahunj aveva qualcosa di speciale. Una magia antica che si è
impossessata di me, forse creata dalla collocazione in mezzo alle montagne sotto un cielo da apocalisse,
forse creata dalla consapevolezza di trovarmi in Asia, così lontana dalle regioni celtiche a cui si suole
attribuire questo tipo di megalitismo. O forse la sua forma di avvoltoio, la coscienza della rigenerazione, la
forte presenza della Madre. Da quel momento io non sono più la stessa. Carahunj mi ha cambiata, mi ha
potenziata, ha sbloccato forze in me che nemmeno sospettavo di possedere.
Pensavo che, dopo quello, nulla avrebbe potuto coinvolgermi di più in Armenia. E invece nei giorni a seguire
fui al villaggio troglodita di Khndzoresk e nelle grotte Arenì. Ebbi l’incontro con le grotte, accoglienti ventri
della terra in cui i nostri antenati vissero le loro vite quotidiane e celebrarono i loro riti. Khndzoresk è una
grande area di rocce di tufo scavate a formare alloggi. Montagne di roccia trasformate in “palazzi”. Un
villaggio paleolitico, ancora più antico di Carahunj, dove vissero i nostri avi, protetti dalle rocce ancora oggi
intatte.
Sulla strada del ritorno verso Yerevan incontrai Arenì, grotta cerimoniale dedicata ancora una volta alla Dea
nel suo aspetto rigenerativo. Ad Areni, nella gola del fiume Amaghù, gli archeologi stanno ancora scavando
diversi strati di sepolture rituali contenenti ossa e corpi in posizione fetale in attesa di rinascere. E un
patrimonio incredibile di anfore e recipienti con offerte di grano e altri alimenti. Tutto ciò che ora noi
possiamo solo leggere e vedere fotografato, ad Arenì esiste ed è visibile. Ma il Piano aveva fatto in modo
che quel giorno gli archeologi non ci fossero. Il gentilissimo guardiano mi accompagnò nella grotta e mi
permise di aggirarmi da sola, suonando il mio campanellino e cantando tra le sepolture e i pinnacoli di
roccia. Sembrava comprendere. Si ritirò in un angolo in silenzio. E quando me ne andai ringraziandolo, mi
disse che mai nessuno prima aveva cantato nella grotta. Aveva una strana luce negli occhi… come di chi
ricorda.
Uscii dalla grotta Arenì con la sensazione di rinascere io stessa. Camminai per un tratto nella gola del fiume,
tra le rocce rosse infuocate in alto e scure d’ombra in basso, ascoltando l’acqua scorrere veloce. Stavo
promettendo all’Armenia che sarei tornata e che lo avrei fatto con i miei fratelli e sorelle che desiderassero
condividere tutto questo, in amore e rispetto.
Il pacchetto VIAGGIO SCIAMANICO INCONTRO CON LA DEA è al link qui sotto: clikkate sulla facciona della
Venere di Botero
http://www.originalarmenia.com/category/viaggio-sciamanico-armenia/
foto e testo CC Devana 2015
…è proprio questo che ho sentito: la “sensazione di rinascere” ed il prossimo anno il nostro cammino ripartirà da qui…
Ringrazio di cuore Sorella Devana che mi ha “iniziata” a questi “cammini”, ringrazio Fratello Rafael Lema Mouzo, che già ci ha accompagnato attraverso alcuni siti in Santiago de Compostela, ed un immenso grazie ad ORIGINAL ARMENIA TOUR OPERATOR che ha permesso il nostro viaggio di conoscenza attraverso luoghi di una magia inimmaginabile…appuntamento quindi al prossimo anno, appuntamento alle prossime tappe!